Sono trascorsi dodici mesi dalla chiusura della prima sperimentale campagna di crowdfunding sviluppata dall’Università di Unife. Dodici mesi nei quali la ricerca sull’individuazione di una cura genica per l’atassia spinocerebellare di tipo 2 sviluppata dal team di ricerca guidato dalla professoressa Peggy Marconi ha proseguito con efficacia; anche grazie al sostegno economico e all’inerzia creata dalla campagna di crowdfunding dedicata al progetto.
Abbiamo incontrato Francesca Salvatori, testimonial e anima della campagna, che con soddisfazione ha ripercorso la sua esperienza e ci ha aggiornati sull’evoluzione del percorso scientifico che la coinvolge: “Il nostro obiettivo di partenza era quello di individuare una cura genica per l’atassia spinocerebellare di tipo 2, malattia neurodegenerativa che insorge in età adulta portando all’invalidità e alla morte nell’arco di 15 anni”.
A che punto siete oggi?
“Abbiamo vissuto un periodo di impasse dovuto alla pandemia, che di fatto ha rallentato le tappe della ricerca. Posso affermare con convinzione che, date le particolari circostanze, se non avessimo potuto contare sulla spinta economica iniziale dei fondi del crowdfunding forse tutto si sarebbe bloccato. Quel finanziamento è stato essenziale per noi”.
Quanto avete raccolto grazie al crowdfundig e come avete utilizzato i fondi?
“La campagna ha avuto grande successo: abbiamo raccolto quasi 11 mila euro, utilizzati per acquistare i materiali necessari a svolgere la biopsia sui pazienti: per sviluppare una molecola in grado di essere efficace sul piano terapeutico abbiamo bisogno di individuare e testare un modello cellulare, attraverso l’estrazione di cellule dalla cute dei pazienti. Inoltre abbiamo comprato una strumentazione all’avanguardia, che ci consentirà di coltivare le cellule in modo tridimensionale, mimando la loro condizione naturale nel nostro corpo”.
Ma crowdfunding non significa solo raccogliere donazioni. Avete ottenuto altre ricadute positive ‘misurabili’?
“Innanzitutto l’eco della nostra divulgazione non si è arrestata al termine della campagna. Ancora oggi ci sono persone che ci chiedono come sostenere la nostra ricerca, a dimostrazione del grande impatto non solo locale, ma anche nazionale, del progetto. Il Lions di Argenta, per esempio, che già era stato sponsor l’anno scorso, due settimane fa ha voluto fare una ulteriore donazione in memoria di una signora che è venuta a mancare per una malattia rara. Poi la nostra attività scientifica è fatta di dati da mettere a sistema: raccontando la ricerca siamo entrati in contatto su tutto il territorio nazionale con pazienti che si sono messi a disposizione per partecipare alla sperimentazione; anche questo ci pare un risultato significativo, oltre che fondamentale”.
Avete raggiunto un sacco di non addetti ai lavori con la vostra comunicazione. Come cambia il modo di presentare il proprio lavoro al cittadino comune?
“Si è trattato di una esperienza stimolante, e molto istruttiva. Siamo abituati a parlare a colleghi e studenti, invece nel raccontare una ricerca per una campagna di crowdfunding bisogna sforzarsi di essere chiari e semplici, uscendo dal linguaggio tecnico e cercando di far digerire al cittadino che si incontra per strada un meccanismo complesso come può essere la teoria genica. Ho imparato la sintesi, la chiarezza, la necessità di utilizzare similitudini dirette; e non potete immaginare quanto sia appagante vedere l’interesse che cresce nell’interlocutore. Essere riuscita a trasmettere l’importanza della ricerca, e la gravità della malattia per la quale stiamo cercando una terapia, mi ha riempito di orgoglio”.
Nelle prossime settimane il crowdfunding per la ricerca Unife riprenderà con nuove campagne. Chi meglio di te può fare un appello ai tanti potenziali donatori…
“Quando si vuole aiutare la ricerca soprattutto in campo medico, viene naturale pensare alle grandi organizzazioni. Invece io dico che sono soprattutto i piccoli gruppi di ricerca all’interno dei piccoli Atenei che devono essere aiutati e sostenuti per proseguire quella ricerca di eccellenza che già si fa. Oggi abbiamo capito sulla nostra pelle che la ricerca è alla base del nostro futuro: sostenere un team di Unife significa anche sostenere il nostro territorio”.